Passo#1: Ingruma quela scovassa
Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo [Gandhi]
Ecologia? Ancora? Abbiamo già Greenpeace, Greta Thunberg e Legambiente a trivellarci i timpani, c'è davvero bisogno di un'altra voce nel coro? Dipende: se la voce è fuori dal coro, allora una stonatura qui e una stecca lì potrebbero creare la giusta dissonanza armonica, arricchirvi più di una lettura convenzionale. Quello che vorrei tentare, con questa rubrica, è un approccio diverso, oserei dire “olistico”. Non voglio discutere di ambientalismo toccando viscidi tasti emozionali, come gli occhioni degli agnelli pasquali al macello, né l'ennesimo invito al riciclaggio, chilometro zero, gruppi di acquisto solidale, raccolta differenziata, ecc. Vorrei invece abbracciare l'argomento a largo spettro, per scovare il sottile filo rosso che si nasconde alla vista. Nelle prossime puntate parlerò di come, in virtù del principio di Landau, non scaldiamo l'ambiente scattando foto dei nostri aperitivi, ma lo scaldiamo quando cancelliamo quelle foto. Oppure di come il modo migliore di riscaldare una stanza d'inverno consista nel tenere aperto lo sportello del frigorifero: e pensare che invece c'è chi lo fa d'estate, illudendosi di raffreddare la casa! Ma anche di come sia possibile ridurre l'emissione di CO2 semplicemente alzandosi per accendere la TV, piuttosto che usare il telecomando. Sono pazzo? Ambizioso? Sto sfidando i mulini a vento? Forse, anzi: sicuramente sì. Perché lo dico? Facile: è tutta colpa di mio padre.
Quando ero ragazzo, dopo ogni picnic sui Colli Euganei, mio padre ci obbligava a raccogliere le immondizie. Tutte le immondizie: nostre e quelle degli altri, abbandonate sul prato, come regali di natali scartati e poi dimenticati. Io non capivo, ma obbedivo: mio padre era militare e ci aveva cresciuti con ordine e disciplina, così noi raccoglievamo tutto, in silenzio.
In estate si andava in campeggio, e ognuno aveva un compito: io e mio fratello eravamo assegnati al Dipartimento Acqua Potabile. Ogni giorno prendevamo la tanica da venti litri, facevamo trecento metri fino alla fontanella, poi tornavano barcollando alla tenda. Perché trecento metri? Perché ovviamente si parlava di campeggio libero, non di uno stabilimento balneare, e l'acqua era preziosa quanto l'oro zecchino. Quei venti litri d'acqua servivano a cucinare, lavare i piatti, le mani e pulirsi i denti. E' così che ho imparato a chiudere sempre il rubinetto, per non sprecare manco una goccia d'acqua. Ancora oggi, ogni volta che mi insapono le mani, serro la spina, per donare al pianeta cinque secondi d'acqua in più.
A Padova abitavamo al terzo piano di un palazzo, con un grazioso giardino comune. Come da assemblea condominiale, ad ognuno toccava una parte del prato. Quando a mio padre chiedevano “Ogni quanto la tagli, tu, l'erba?” lui rispondeva “Quando è alta”. Gli altri invece la rasavano con periodicità cronometrica, manco avessero un oscillatore al cesio al posto del cuore (avevo in mente un'altra parola, ma voi avete capito). A quel punto, quando mio padre vedeva il prato della sua zona di competenza immerso tra una savana condominiale e una foresta in miniatura, gli veniva il sangue amaro: così riaccendeva il taglia erbe e finiva il lavoro. “So che non è giusto” - ci spiegava - “Ma alla fine cosa è meglio? Aspettare che gli altri facciano la loro parte, e vivere in una selva abbandonata, o lavorare un'ora in più, e lustrarsi gli occhi con un bel giardino?”.
A forza di farsi il sangue amaro mio padre è morto di leucemia, quindici anni fa, prima che io ne compissi quaranta. Mia madre, rimasta invalida quando ne avevo venti, vive in casa di riposo. Quando le chiedo come trascorre le giornate mi spiega che va avanti e indietro tutto il giorno, zigzagando con la sua sedia a rotelle: toglie le erbacce dal giardino (comune), raccoglie le cartacce che gli altri anziani gettano per terra (a un metro dal cestino), rammenda gli abiti dei vecchietti, piega bavaglini, rinvasa piante dell'istituto, prepara festoni. Di fatto lavora per la casa di riposo otto ore al giorno. Dovrebbero pagarla, invece è lei a pagare l'intera pensione di reversibilità di mio padre. La ringraziano? Macché, anzi: deve agire nell'ombra, altrimenti la cazziano pure.
Bene: questa parentesi autobiografica è servita a due cose: presentarmi prima di entrare nel vivo dell'argomento, e giustificare lo strano titolo di questa puntata. L'ultima volta che vidi mio padre gli chiesi se potevo fare qualcosa per lui, prima di salutarci. Lui indicò con lo sguardo una cartaccia distante una ventina di metri, in fondo alla corsia dell'ospedale, che qualcuno aveva gettato a pochi decimetri dall'apposito contenitore.
- Ingruma quela scovassa – rispose in dialetto triestino.
Ovvero: “raccogli quell'immondizia”. A pochi giorni dalla sua morte, con ormai un piede nella fossa, consapevole che quello ero uno degli ultimi momenti da passare col suo primogenito, lui espresse l’estremo desiderio: pulire il mondo.
Bene, adesso che abbiamo concluso le presentazioni, torniamo allo scopo di questo viaggio: un approccio olistico, dicevo, giusto? Quindi nessun giudizio su chi prende l'automobile per fare mezzo chilometro, oppure a chi tiene diciotto gradi in casa d'estate e venticinque d'inverno.
Cercherò di condividere invece una serie di racconti, riflessioni, aneddoti, esperienze di vita. Ho raccontato perché il mio cocciuto, masochista e vano spirito ambientalista è probabilmente colpa di mio padre. Con lo stesso approccio vorrei parlare di equilibri di Nash, termodinamica, volontariato, turismo consapevole e riscaldamento globale. Nella prossima puntata, se tutto va bene, mostrerò come la teoria dei giochi può essere applicata per valutare i pro e contro delle modalità di trasporto urbano. Ma prima di salutarci, un breve resoconto dal diario di bordo.
Lo scorso sabato sono rimasto nauseato dall'ennesimo post su Facebook pubblicato nel gruppo “Sei di Paperopoli se...” del mio paesino. Sono mesi che i post riguardano fotografie di rifiuti abbandonati per strada, solo per lamentarsi del fatto che il comune, il governo, lo stato, l'Onnipotente, insomma qualcuno dovrebbe fare qualcosa. Per sfogare la rabbia ho deciso di consumare calorie in modo diverso dal solito, ma utile al prossimo: ho preso guanti, tre sacchi belli capienti, cappello anti raggi UV e ripulito un paio di parchi cittadini. Ci ho messo un paio d'ore, ma alla fine i giardini erano puliti e ogni cosa era al suo posto: la plastica nella plastica, il vetro nel vetro, la carta nella carta, i babbani sulle panchine, a mangiare il gelato commentando “Guarda che bravo, quel signore”. A nessuno è venuto in mente di alzarsi e darmi una mano, ma del resto era ciò che mi aspettavo, anzi: se l'avessero fatto ne sarei rimasto sorpreso, forse deluso. Ho agito per continuare l'opera di mio padre, non per essere ringraziato, né per essere imitato. La famosa “Magia del fare”.
Quello che invece mi ha sorpreso è, che per una serie di coincidenze, neanche 24 ore dopo mia figlia adolescente si è iscritta ad un progetto comunale per restaurare le aree giochi dei parchi cittadini. D'accordo, l'ha fatto per i 50 euro in buoni spesa di ricompensa, nonché per merito della mamma, sempre sul pezzo per queste cose. Ma diciamocelo: 50 euro per una settimana di lavoro sono un gettone presenza, non uno stipendio.
Così, ora mi chiedo: “Sarà colpa mia se mia figlia ha ereditato questa strana passione per l’ambiente?”. Se mio padre potesse rispondermi, forse direbbe: “Non importa chi l'abbia trasmessa, l'importante è che continuiamo a pulire il mondo, tutti assieme".